INTERVISTA A EGIDIO TERMINE sul suo film IL FIGLIO SOSPESO

Di:  Emanuele Pizzatti.

figlio sospeso

Si fa presto a dire “utero in affitto”: il film indaga invece sul tessuto umano che viene leso da questa pratica abominevole.E’ nelle sale l’ultimo film del bravo regista siciliano, distribuito dal coraggioso Angelo Bassi.

Solo se conosciuta la verità rende liberi. Parte da questo assunto Il figlio sospeso, l’opera seconda del regista siciliano Egidio Termine. Il film recentemente proiettato al Festival di Taormina affronta il tema della maternità surrogata senza entrare nel merito di questioni bioetiche, legali, tecnico-scientifiche o morali.

Il film è stato prodotto dall’Associazione Culturale STAR e la distribuzione piccola ma efficace è affidata alla Mediterranea Productions di Angelo Bassi, un uomo molto coraggioso che non ha esitato a mettersi in gioco e a rischiare critiche scomode. Il film uscirà nelle sale all’inizio del prossimo anno ma già è molto richiesta la visione e la presentazione in anteprima da scuole, comunità o gruppi sociali interessati ad approfondire questo tema così attuale, discusso e incompreso.

 

La gestazione per Altri, più chiaramente detta utero in affitto, è un tema oggi molto dibattuto e quasi soltanto dal punto di vista politico o ideologico. Talvolta lo si affronta secondo criteri morali, etici o anche teologici e dottrinali, poiché cercare di capire questa realtà richiede una capacità di comprensione e osservazione da tutti i punti di vista che caratterizzano la complessità umana.

Questo film aggiunge al dibattito un forte contributo di attenzione all’aspetto umano intimo, doloroso, estremamente vero e così poco soggetto alle influenze di tutti gli altri elementi culturali condizionanti. Faticosamente possiamo riuscire ad immaginare cosa accade davvero ad una donna che mette il proprio corpo e la propria capacità riproduttiva a disposizione di altri. E chissà quali veri sentimenti vivono il padre biologico tanto poco considerato e la mamma e il papà adottivi che acquistano questo ”servizio”. Ma l’attenzione si indirizza più che altro a capire cosa possa vivere il figlio, soggetto vero di tutto, inserito dalle scelte di vita degli adulti tra l’incudine di quelli che vivranno con lui la loro costruita genitorialità e il martello dei legami biologici essenziali. Tanto più quando questa pratica viene utilizzata da coppie mono sessuali dove viene necessariamente a mancare una delle due figure educatrici.

Signor Egidio Termine, come nasce l’idea di realizzare un film sull’utero in affitto?

“Nella storia di un film – e la mia dura da quasi dieci anni-  c’è sempre un’idea di partenza.  Anni fa ascoltavo alla radio un programma sull’educazione dei giovani condotto da un pedagogista che alla fine delle sue trasmissioni leggeva sempre un brano letterario. Mi colpì molto il brano di Margery Williams “Il coniglietto di velluto”. In poche parole un peluche-giocattolo, che rappresenta il bambino indifeso, curioso e pauroso, domanda ad un altro giocattolo, un cavallo a dondolo, più esperto e maturo, che cosa vuol dire essere reali. Alla fine il messaggio è inequivocabile: per essere reali è necessario che qualcuno si prenda cura di te, in altri termini che ti ami realmente. Seppi poi che lo psicologo inglese Donald Winnicott partì proprio da questa favoletta per trarre le basi della psicologia infantile: un bambino per sviluppare una personalità armonica aveva bisogno di sentirsi amato; solo se ci si sente amati, si può essere liberi, veri e capaci di amare. In fondo è ciò che accade ai credenti: sentire in prima istanza che siamo amati da Dio. “E’ Lui che ci ha amati per primo” (prima lettera di San Giovanni). Ho cercato, quindi, di comprendere come vivono coloro che sono privati di questo incipit della vita. Ho pensato ai bambini abbandonati, rifiutati, orfani dalla nascita; oppure a quelli che venivano venduti con la pratica dell’utero in affitto. E così è nata l’idea di partenza. Una problematica attuale e controversa”.

Il film riesce a portarci dentro a sentimenti e situazioni molto intense e contrastanti. L’amore dolorosamente inappagato della mamma che non può avere figli. La necessità economica dell’amica, madre surrogata, che diventa falsa generosità in un momento di vita particolarmente delicato. Il grande desiderio procreativo del padre, realizzato sì ma ad un costo molto alto. Il medico che accontenta un desiderio che può sembrare un delitto non avvalorare. Un ragazzo vero, vivo e che senza questa pratica non sarebbe mai esistito. E le conseguenze che il figlio si trova a dover vivere, le inquietudini delle due donne e del padre. La realtà naturale e biologica che sembra dover emergere assolutamente e con forza nella vita del ragazzo e di tutti i soggetti coinvolti, quasi a chiudere falle insopportabili.

Il confine fra il bene e il male in questo film (e su questo tema) non sembra affatto semplice da delineare.

Separare l’atto generativo di un essere umano reso possibile dalla tecno-scienza e il rapporto fra i due che lo desiderano e lo realizzano ad ogni costo rende la nascita un fatto non più conseguenza naturale, frutto di una unione e comunione, ma realizzabile in contesti innumerevoli e privi di regole o confini che nessuna legge sembra poter limitare.

Signor Termine, La sua opera sembra spingerci allo sforzo di capire cosa la nostra epoca vuole proporci come progresso ineluttabile: scienza contro umanità?

“Viviamo in un momento storico-sociale, molto difficile da comprendere. Siamo in pieno passaggio tra l’umanesimo e il post umanesimo nel quale l’uomo vuole liberarsi delle regole naturali per inventarsi una nuova antropologia che rifiuta la creaturalità. Non metto in dubbio che tutto ciò viene praticato a fin di bene, ma la contraddizione consiste proprio, e questo fa molto danno, nel rifiutare la natura da cui si parte. L’essere umano vive in una continua tensione tra ciò che in lui è naturale e il suo bisogno di essere culturale. Ma il culturale parte sempre dal naturale, è ancorato in esso. La cultura può migliorare la natura, potremmo anche dire che tutto nell’essere è culturale, anche l’amore – perché ad amare si impara -, ma qui si tratta di eleminarla la natura, e se si elimina la natura l’essere umano scompare. Oggi viviamo nell’egemonia della scienza e della tecnologia, abbiamo scordato che la cultura sia scientifica che umanistica è nata per servire l’uomo e non per ricrearlo. Siamo entrati in una aporia da cui non si riesce più a trovare il punto di partenza”.

Il protagonista Lauro rimane in gioco fra due madri, con il solo lontano ricordo del padre. Questo sembra avvicinare la sua condizione a quella del figlio di una coppia omo-femminile.

La GPA è una pratica richiesta tanto da coppie etero quanto omo ma esiste comunque una grande differenza fra chi è nelle condizioni naturali di generare una vita, ma ne è magari impossibilitato, e chi invece vuole un figlio che secondo natura non avrebbe mai.

Signor Termine, il protagonista Lauro, se concepito nell’ambito di una coppia dello stesso sesso, avrebbe vissuto una condizione identica, oppure migliore o peggiore?

“La psicologia infantile ci insegna oggi che la madre sviluppa il mondo interiore del bambino, tutta la sfera affettiva, mentre il padre rappresenta il ponte con il mondo. E’ il padre che lancia il figlio nel mondo, mentre è la madre che gli dà gli strumenti per affrontarlo. Non vedo altre soluzioni che non portino a disastri piscologici e relazionali.

E’ evidente la ferita senza possibilità di ricucita del figlio e poi la storia parallela di due madri che in un certo senso rivendicano un diritto, quello della maternità. Dico in un certo senso, perché il figlio non è un diritto, ma un incontro. Non si adotta un figlio per riempire un vuoto, ma per dare a lui la possibilità di una crescita in famiglia e quindi un inserimento più armonico nella società. Rimango convinto che la famiglia sia la vera cellula della società”.

La pratica dell’utero in affitto, peraltro vietata almeno formalmente in molte nazioni, porta con sé aspetti che determineranno conseguenze per tante popolazioni coinvolte. E’ evidente l’azione di sfruttamento delle Madri surrogate cinesi, indonesiane, sudamericane, africane, ecc. ecc., tipicamente in situazioni di vita culturali ed economiche molto difficili. Una mercificazione che sfrutta la miseria e che costituisce un pilastro di un grande business che apparentemente risponde alla richiesta di soddisfazione del desiderio di avere dei figli, ma che invece ne favorisce e ne genera l’esigenza stessa.

La possibilità di scegliere le caratteristiche fisionomiche e magari anche psicologiche e intellettuali dei figli che molte coppie “progettano”, così come di poterli scartare se imperfetti, corrisponde ad un desiderio di molti ma si tratta di una terribile inumanità e costituisce l’altro elemento importante, e assai pericoloso, dello stesso grandissimo business.

L’utero in affitto costringe a separare il neonato dal rapporto con la madre naturale, l’allattamento, il dialogo intimo così importante nella crescita. Sono aspetti che la psicologia ha sempre riconosciuto come fondamentali, tanto che se mancano provocano serie ricadute. Sono parametri incontestati e molto ben descritti in ogni testo orientato a dare aiuto genitoriale alle coppie adottive, quelle vere.

La mamma gestante, protagonista nel film, si ammala probabilmente proprio per il bombardamento ormonale subito per la produzione degli ovociti. Eloquente il silenzio dei medici alle sue domande. Sono noti e facilmente chi lo desidera può informarsi circa i pesanti rischi per la salute delle donne. Ma è quasi un grande segreto, nascosto in ogni dibattito su questo tema. Il film riesce in questo caso a gettare bel sassone nello stagno del dibattito sulla gestazione per altri e sulle impropriamente dette “donazioni” di ovuli, dietro alle quali ci stanno pratiche estremamente irrispettose della natura della donna, rischiose per la sua salute e che hanno provocato già nel mondo gravissime menomazioni a molte ragazze e perfino la morte in alcuni casi di cui si conoscono i termini.

Dobbiamo chiederci se è lecito consentire che tutto accada secondo le sole leggi del commercio e dello scambio. Dobbiamo decidere se e quanto invece dovrebbe essere governato da criteri etici e morali, con attenzione massima alle necessità umane e trascendentali tipiche dell’uomo.

Signor Termine, come dobbiamo leggere nel film i suggerimenti rispetto alle tante conseguenze e caratteristiche della pratica dell’utero in affitto? Ha messo al centro il dramma del bambino e il suo diritto a non essere strappato dalla madre biologica, crede che questo aspetto sia volutamente sottaciuto dal dibattito pubblico?

“Io non ho voluto fare un film per dimostrare una tesi, sarebbe sbagliato e intellettualmente disonesto. Ho voluto solo raccontare umanamente una storia drammatica e conflittuale che lascia sgomenti e sospesi nel giudizio. Forse con un film che agisce a livello emotivo possiamo recuperare una riflessione razionale senza pregiudizi e senza influenze culturali che ci allontanano da noi stessi. Io parto dall’uomo per cercare di capire i drammi dell’uomo stesso.

Sì, è vero: dal racconto della storia del protagonista emerge una violazione di un diritto del bambino e quindi una verità che chiede giustizia. Ma nel film, la verità ricercata e conosciuta, che è sempre la base fondamentale per costruire rapporti e relazioni, non ha un’accezione negativa, ma sempre positiva. Il figlio rimarrà come tale per sempre sospeso tra due madri, quella biologica e quella culturale, ma esploderà in una maturità che comunque lo farà “uomo”. Dico solo che nel passaggio epocale dall’umanesimo al post-umanesimo che stiamo vivendo in cui si vuole ridisegnare l’antropologia umana, la sospensione non è solo del bambino, ma di tutta l’umanità, una sospensione in attesa di… Di cosa non si sa. C’è solo la voglia di cambiare e di rifiutare quelle che sono le regole antropologiche su cui si fonda il cristianesimo, e tutto questo perché si deve eliminare Dio dalla nostra vita, un Dio troppo scomodo e ingombrante.

Il mio è un film sull’amore che parla dei soggetti dell’amore, coloro che lo danno, l’amore, e coloro che lo ricevono. L’amore è un atto di volontà, non un sentimento. L’amore è fare qualcosa per qualcuno. Se non comprendiamo questo abbiamo sbagliato. E non accettando lo sbaglio allora cerchiamo di cambiare l’uomo e le sue regole, la sua antropologia. Rifiutando di essere creature, rifiuteremo il fatto che la vita è un dono, e che può essere realizzata pienamente solo se la doniamo”.

 

Il regista Egidio Termine dal 1997 si occupa di Educazione all’immagine nelle scuole di Palermo e provincia e nel 2000 fonda la Scuola di Recitazione Cinematografica a Palermo rivolta ai giovani dell’intera Sicilia, per la formazione di attori, registi, sceneggiatori e montatori televisivi e cinematografici.

 

Produce diversi lungometraggi, documentari e docu-fiction (tutti su tematiche di carattere sociale): “BAMBINI AI SEMAFORI”, sullo sfruttamento del lavoro minorile; ” UNA NUOVA CITTADINANZA E UNA NUOVA SOCIETA’ MULTICULTURALE”, sul fenomeno dell’Immigrazione in Sicilia;  “LA SPERANZA CHE NON DELUDE”, su don Pino Puglisi; “AIL IN PRIMO PIANO “, sul mondo del volontariato; “PERCHE’ MI GUARDI?”, sul mondo dei disabili; “LA MIA SECONDA VITA”, sulla vita di un trapiantato di rene; “L’INFLUENZA DEL GOTICO MEDITERRANEO IN SICILIA”; “PER QUEL VIAGGIO IN SICILIA”.

Potete guardare il trailer del film al link:    https://youtu.be/qlP4OxwfOYs

 

 

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